C. Mencacci, M. Riva, G. Buffa, E. Dinasso, V. Ferrari, C. Lurati, I. Netti
Quaderni Italiani di psichiatria vol. XXVI-2. giugno. Masson ed. 2007
I disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore rappresentano un’area prioritaria di intervento a causa della loro elevata prevalenza nella popolazione generale. Secondo le stime di prevalenza di questi disturbi, è ipotizzabile che, nel corso di un anno, circa il 10% della popolazione presenti una condizione diagnosticabile come disturbo depressivo o d’ansia (1).
In tale contesto si inserisce l’attività di lavoro del Centro per la Diagnosi e la Terapia della Depressione e dell’Ansia dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano.
Al Centro si rivolgono pazienti che vengono inviati da medici di base, medici di altre discipline specialistiche o sulla base di “auto-diagnosi”.
I pazienti manifestano svariate configurazioni sintomatologiche che spesso, ma non sempre, esprimono specifici quadri di disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia. Quadri clinici manifesti rappresentano, di fatto, solo una parte delle richieste di aiuto che arrivano al nostro Centro. La nostra realtà clinica è spesso rappresentata da configurazioni sintomatologiche che non corrispondono completamente ai criteri minimi necessari a porre una diagnosi secondo le categorie del DSM IV. Parte della nostra utenza è affetta da patologie sottosoglia dell’area ansia-depressione, così come una fascia non trascurabile di domande è assolutamente vicina a criteri di normalità statistica e funzionale. Questi dati indicano sia una problematica di rilievo in termini di sanità pubblica sia, a nostro avviso, un importante aumento di insoddisfazione soggettiva per la qualità della propria vita.
Per quanto riguarda il Piano Regionale per la Salute Mentale, il Centro è “sovrazonale” e competente solo per la consulenza e l’assunzione in cura. La consulenza è il percorso di cura previsto per le patologie minori con la formulazione e restituzione di un’indicazione e/o un parere al paziente e al suo medico, mentre l’assunzione in cura è il percorso deputato per la risposta a bisogni di trattamento essenzialmente specialistico con la possibilità di trattamento in day-hospital o episodi di ricovero per il trattamento di riacutizzazioni sintomatologiche.
Per quanto il Centro operi a stretto contatto con le altre strutture del Dipartimento di Salute Mentale, potendo così far riferimento ad un SPDC per eventuali ricoveri ed a vari CPS per supporti socio-assistenziali, sono stati fin da subito introdotti criteri di esclusione e di inclusione piuttosto precisi al fine di offrire una risposta specifica e configurata per una domanda psicopatologica ipoteticamente specifica. I criteri di esclusione (urgenze in atto, disturbi mentali organici, dipendenze da sostanze stupefacenti, psicosi, disagi socio-lavorativi) differenziano il nostro centro dal centro psicosociale (CPS), struttura invece deputata alla presa in carico da un punto di vista biopsicosociale di pazienti multiproblematici affetti da disturbi psichici gravi (diagnosi elettive: disturbi psicotici, gravi disturbi affettivi, gravi disturbi di personalità) e/o portatori di bisogni “complessi” sul piano del funzionamento socio-familiare e lavorativo.
Abbiamo di fatto individuato un unico ma fondamentale criterio di inclusione per la presa in cura che è la necessità di una terapia psicofarmacologica. Criterio semplice ma in grado di stimolare l’attenzione del curante alla clinica, cioè ai “fenomeni” emergenti nell’attualità permettendo così sia l’accesso a concettualizzazioni “dimensionali” ovvero relative all’intensità, al “peso” dei sintomi, sia una distanza teorica da immediati obblighi di diagnosi categoriali. Al Centro vengono dunque presi in cura pazienti affetti da sintomi depressivi e ansiosi rispetto ai quali è possibile realizzare obiettivi terapeutici implicanti remissioni sintomatologiche e ovviamente la dimissione dal Centro stesso in relazione al miglioramento della qualità della vita.
Nello specifico, il paziente prende contatto telefonicamente con il Centro fissando una prima visita specialistica e fornendo i dati anagrafici. Al termine di questo primo contatto viene specificato che la prima visita è di consultazione. La prima visita viene svolta dallo psichiatra disponibile, il quale effettua una raccolta di dati anagrafici ed anamnestici e una fase di valutazione della domanda di intervento con l’obiettivo di definire la posizione del Centro rispetto ad essa e di giungere a una diagnosi clinica con una valutazione funzionale (funzionamento psicosociale, caratteristiche del contesto familiare e sociale). In seguito lo psichiatra decide contestualmente per la presa in cura o per l’invio ad altra idonea struttura (CPS, Servizi di Psicoterapia, Ambulatori per patologie specifiche come i disturbi della condotta alimentare…).
Nel primo caso sono stati definiti differenti tipologie di intervento. La prima modalità prevede, dopo la visita di consultazione, visite psichiatriche di controllo inizialmente mensili ed in seguito ogni 3 mesi circa con eventuale monitoraggio telefonico. Questa modalità prevede la somministrazione di alcuni test di auto-eterovalutazione (HAM-D, HAM-A, SSAS) all’inizio ed alla fine della terapia (2,3,4).
Il trattamento integrato costituisce la seconda tipologia di intervento (5,6). Il paziente esegue visite psichiatriche di controllo a cui si associano 10 colloqui psicoterapici a cadenza bisettimanale. Anche questa modalità prevede la somministrazione di test auto-eterovalutazione.
Infine, esiste un’ultima tipologia di intervento subordinata ad una valutazione psicodiagnostica effettuata da uno psicologo “esperto”. Tale valutazione si avvale di testistica diacronica (Rorschach ecc), test di auto-eterovalutazione, colloqui psicologici (7). In questo caso al paziente vengono offerte visite psichiatriche di controllo che si svolgono parallelamente ad un ciclo di quattro sedute psicologiche a frequenza settimanale con lo psicologo consulente.
A tutte le modalità possono essere eventualmente associate un percorso in gruppi di sostegno a termine.
RISULTATI
Abbiamo condotto uno studio retrospettivo, di tipo osservazionale attuato attraverso la consultazione delle cartelle cliniche dei pazienti.
È stato preso in esame un campione di 273 cartelle cliniche su un totale di 2675 pazienti ambulatoriali afferiti al Centro nell’arco di 4 anni.
Per quanto concerne i dati socio-demografici, emerge che il nostro campione è composto da 102 uomini e 171 donne (37,36% vs 62,64%), per lo più in un’età compresa tra i 31 e i 45 anni (32,35%). Il 48,72% dei pazienti è risultato essere coniugato e il 29.72% celibe-nubile con un’attività lavorativa prevalentemente stabile a carattere impiegatizio (28,94%) (tabella 1,2,3,4).
In base ai criteri nosografici del DSM IV TR, la diagnosi psichiatrica di più frequente riscontro è stata la Depressione Maggiore (30,77%), seguita dalla Depressione ricorrente, dal Disturbo d’Ansia Generalizzato e dalla Distimia (tabella 5). Per quanto concerne la distribuzione di genere, la diagnosi psichiatrica è più frequente nel sesso femminile (tabella 5).
La comorbidità organica è presente nel 43,22% del campione. La diagnosi somatica più frequente è risultata essere la patologia cardiovascolare (16,85%), seguita da patologie neurologiche (5,86%), neoplasie (5,49%), patologie genitourinarie (4,40%) ed in ogni caso la maggior parte dei pazienti all’interno del campione (51,28%) soddisfano i criteri per una patologia organica (tabella 6).
I pazienti in terapia farmacologica sono stati trattati per lo più con una monoterapia (30%) o con un’associazione farmacologia, la più prescritta è stata antidepressivo+benzodiazepina (43,70%).
L’antidepressivo più prescritto come farmaco di prima scelta è stata la paroxetina, seguita da citalopram, sertralina e venlafaxina.Tra le BDZ, la più frequentemente prescritta è stata alprazolam in prima battuta, seguita da clordemetildiazepam e da lorazepam. Le stesse molecole poi sono state confermate come farmaci di seconda scelta. Olanzapina è stata invece l’antipsicotico più prescritto in prima battuta, seguito da risperidone. Infine tra gli stabilizzanti del tono dell’umore, il valproato di sodio è risultato essere quello più frequente come prima, seconda e terza scelta.
I disturbi di personalità ed il disturbo ossessivo-compulsivo hanno rappresentato un’eccezione. I disturbi di personalità nel nostro campione hanno evidenziato una distribuzione maschi/femmine di 35.29% vs 64.71%, nel 50% hanno presentato una concomitante diagnosi somatica e nel 28.57% sono stati trattati con un’associazione farmacologica antidepressivo+benzodiazepina, con la stessa frequenza antidepressivo+stabilizzante dell’umore. Le molecole più prescritte sono state paroxetina, citalopram, escitalopram e sertralina in modo uguale tra gli antidepressivi; valproato di sodio e bromazepam invece sono state le molecole più usate tra gli stabilizzanti dell’umore e le benzodiazepine. Il gruppo di pazienti con diagnosi di disturbo di personalità a differenza degli altri gruppi era più frequentemente “non coniugato”. Il disturbo ossessivo-compulsivo nel nostro campione ha una distribuzione maschi/femmine di 57.14% vs 42.86%, per lo più con una concomitante diagnosi somatica neurologica o in misura minore gastroenterica. Il trattamento più utilizzato è stato una monoterapia (42,86%) e l’associazione stabilizzante dell’umore+antidepressivo (28,57%). Le molecole più prescritte sono state sertralina, valproato di sodio, alprazolam.
Per ciò che riguarda il trattamento, il 76,30% dei pazienti ha ricevuto un trattamento farmacologico esclusivo, il 2,22% un trattamento psicoterapeutico e il 21,48% un trattamento integrato. Il 77,94% dei pazienti è stato seguito nel tempo per un totale di 1-10 visite ambulatoriali, con una media di 6,82 visite per ciascun paziente. I drop-out dal centro sono stati pari al 26,01%, a fronte di un 24,54% di pazienti attualmente in carico, e di un 13,55% dimessi. Solo l’8% del campione non ha ricevuto alcun trattamento, interrompendosi il rapporto con la prima visita per l’invio ad altra struttura.
I trattamenti psicofarmacologici: alternative d’intervento sulla crisi psichica.
Il nostro compito qui è, nelle nostre intenzioni di partenza, di curare la crisi, nella sua fase acuta o, comunque, nel momento della sua massima espressione. Intervenire sulla sofferenza psichica di un paziente, sia depresso o ansioso, significa, a tutt’oggi, nella maggior parte dei casi, fare affidamento a un trattamento farmacologico adatto, adeguato, mirato, il più possibile “pulito”. Ed è importante sapere che questi strumenti esistono, sono affidabili, a volte anche flessibili, consentono con buona probabilità di successo di modificare il corso di un malessere, magari verso una risoluzione sintomatica, magari solo verso un sollievo.(8) Oppure nella direzione di una nuova consapevolezza, liberata dall’angoscia del sintomo, che possa avviare anche a trattamenti diversi, psicoterapeutici o alternativi ancora.
Esiste anche la possibilità, prima ancora di intervenire farmacologicamente, di non intervenire affatto (9). Può sembrare un approccio non adeguato per un Centro che si prefigge la cura dell’ansia e della depressione ma ci sembra di poter dire che, in molti casi, la richiesta di un intervento non è sempre legata a un reale disagio ma a un bisogno di attenzione o di semplice chiarificazione. Ci sembra importante poter affermare a volte la necessità di un non-intervento, di una risoluzione di problemi e contraddizioni che non sia sempre demandata a una disposizione esterna ma individuata nella ricerca di una risorsa interiore. Stiamo parlando, è ovvio, di condizioni in cui la sofferenza non sia limitante e disabilitante, di condizioni in cui la domanda di una risoluzione “medica” sia stata indotta da una tendenza sempre più generalizzata a vedersi malati o depressi quando invece solo coinvolti in conflitti o in situazioni di frustrazione che possono essere risolti senza ricorso al farmaco.
Questa premessa serve anche a valorizzare l’uso del farmaco, quando realmente necessario e non demandabile. La nostra formazione e la nostra impostazione ci hanno sempre indicato il trattamento della sindrome, e non del singolo sintomo, come l’approccio migliore nella cura del paziente psichiatrico. Questo significa cercare non una terapia a ogni problema presentato, ma una metodologia farmacologica globale. In sostanza si tratta di non interpretare ogni singolo sintomo se non nell’ambito di una sindrome, di non intervenire singolarmente ma unitariamente su un cluster di sintomi che possano rispondere a una terapia farmacologia che deve rimanere il più possibile “pulita”. Non solo per evitare l’insorgenza di effetti collaterali che, un quanto derivanti da più molecole farmacologiche, rischiano una collisione biologica con effetti quanto meno sgradevoli a danno dei pazienti che diventano contenitori di farmaci, ma anche per evitare una terapia confusiva e dispersiva che perda di vista l’obiettivo principale della cura del paziente. Una terapia farmacologia non frammentata in particelle infinitesimali volte a soffocare ogni emergenza sintomatologia, ma una terapia che guardi il paziente nella sua interezza, anche dinamica, mobile, modificabile. Vista in questa prospettiva assume un particolare significato anche l’informazione che dovrebbe gravitare intorno all’uso del farmaco, un’informazione corretta ed esaustiva fornita al paziente che puo’ migliorare la compliance, quell’aderenza al trattamento e quella collaborazione che consentono di ottenere dal trattamento farmacologico il massimo dei risultati possibili. (10)
Questo nostro orientamento farmacologico è facilmente leggibile dai risultati della nostra indagine sui pazienti in carico al Centro Ansia e Depressione. Poiché le sindromi depressive sono le più frequenti nella nostra pratica clinica, il trattamento antidepressivo è, di conseguenza, il più frequentemente adottato: una monoterapia (prevalentemente un SSRI), quasi mai in associazione ad un’altra molecola della stessa categoria (SSRI o TRC), eventualmente accompagnato da una BDZ, farmaci a tutt’oggi insostituibili nel sollievo dell’ansia. Come spesso accade, anche nell’ambito del nostro gruppo di lavoro ci sono molecole che decisamente ricorrono piu’ di altre, gli strumenti piu’ usati sono quelli che si conoscono meglio, quelli rispetto ai quali circolano piu’ informazioni di efficacia e buona tollerabilita’. Ma, soprattutto, come gia’ affermato in precedenza, cio’ che piu’ configura un modo di affrontare la patologia e’ il metodo, l’approccio di tipo farmacologico, nel nostro caso spesso in associazione ma tendenzialmente mai ridondante di molecole. Emerge anche un altro aspetto interessante, ovvero l’impiego, sempre piu’ allargato, degli antipsicotici atipici in qualita’ di molecole flessibili, quasi adattabili a diverse esigenze terapeutiche. Nel caso della nostra esperienza in ambito depressivo-ansioso, si sono spesso dimostrati utili come stabilizzatori dell’umore, come “tranquillanti maggiori” nelle depressioni gravi e nelle depressioni dell’anziano, come ipnotici nei casi di estrema resistenza alle benzodiazepine.
Conclusioni: verso l’adozione di vertici integrati
Intervenire sul disagio psichico significa, come descritto sopra, non limitarsi a scomporlo in un insieme di singoli sintomi sovrapposti. Ciò é possibile anche introducendo un “fattore di complessità” che consideri il funzionamento psichico patologico un evento sovradeterminato e non casuale, unico per ogni paziente.
Da un vertice di osservazione psicofarmacologico questo é dunque possibile intervenendo con trattamenti che affrontino i sintomi come configurazioni complesse e non come sequenze di isolati elementi psichici disfunzionali.
Seguendo questa linea di pensiero é possibile introdurre un secondo vertice, quello psicoterapeutico, complementare ed in continua interazione con il primo. La dinamica psichica di un determinato individuo in un momento di crisi può essere letta alla luce di elementi quali la struttura di personalità, l’insieme di difese impiegate, funzionali e disfunzionali, le risorse e le potenzialità evolutive, le modalità relazionali e famigliari, il contesto socioeconomico nel quale é inserito.
I legami di senso tra questi fattori, che nella loro continuità caratterizzano l’esperienza dell’individuo nel tempo e nello spazio, in determinate condizioni di crisi possono subire una rottura, arrivando a configurarsi in forma di disturbi depressivi o d’ansia. La psicoterapia interviene proprio in questo punto, con un lavoro che ha come obiettivo la trasformazione di entità sintomatologiche apparentemente sconnesse da un significato, se non in forma assolutamente condensata e dunque poco comprensibile, in un’esperienza che possa essere collocata nel qui ed ora dei pazienti, ricollegata ad elementi della loro storia e delle proprie caratteristiche individuali e dunque, in sintesi, compresa e trasformata in pensieri, emozioni, modalità relazionali e comportamentali maggiormente adattive rispetto a quelle espresse attraverso i sintomi. L’intervento si orienta dunque verso una ristrutturazione dell’Io, così da rafforzare la capacità di riconoscere ed analizzare le origini della propria conflittualità adottando meccanismi difensivi più evoluti ed intervenendo sull’organizzazione globale del Sé.
Diversi sono stati gli autori che hanno sostenuto l’efficacia della psicoterapia (11,12,13) nella cura sia dei disturbi d’ansia che di quelli depressivi. Oggi, però, parte dell’interesse diretto alla valutazione dell’efficacia degli interventi psicoterapeutici sembra essersi spostata rispetto al passato. Non si tratta più di valutare se la psicoterapia sia efficace o meno, bensì di capire su cosa va ad agire e come e, soprattutto, quale tipo di relazione o inter-relazione esista tra psicoterapia e psicofarmacologia. Diversi studi evidenziano una generale superiorità degli interventi integrati rispetto al solo impiego di psicofarmaci o psicoterapia (14, 15,16, 17, 18, 19, 20).
In un precedente lavoro (21) abbiamo sostenuto la superiorità dell’approccio integrato nel trattamento della depressione maggiore. Nello specifico, nei pazienti trattati con psicofarmaci associati alla psicoterapia, é stata riscontrata una superiorità statisticamente significativa nella riduzione del disagio psichico e nei livelli della sintomatologia ansiosa e depressiva ma, soprattutto, un aumento di soggetti classificabili come responder alle terapie e di coloro che al termine dei trattamenti avevano raggiunto una remissione completa dalla sintomatologia.
Anche i dati del campione considerato in questo lavoro evidenziano delle differenze negli esiti dei trattamenti farmacologici rispetto a quelli integrati (Tabella 7, 8), in accordo con la precedente ricerca. Il confronto mostra come la percentuale dei pazienti classificati dallo psichiatra al termine dei trattamenti, seguendo i criteri dell’intervista clinica strutturata del DSM-IV, come soggetti a remissione aumenti da 4,37% per coloro trattati con psicofarmaci a 13,79% per coloro che hanno intrapreso un trattamento integrato.
Si verifica inoltre una riduzione della percentuale dei pazienti classificati come rispondenti alla terapie passando dal 28,64% per coloro che sono stati trattati farmacologicamente, al 21,52% di coloro che hanno ricevuto anche un trattamento psicoterapico; la nostra ipotesi rispetto a questo dato é che una parte significativa di pazienti di questo ultimo gruppo abbia ricevuto al termine del trattamento una valutazione che li collocava come pazienti soggetti a remissione invece che come parzialmente rispondenti. Infine i dati evidenziano un incremento nella percentuale di pazienti che ottengono una risposta parziale ai trattamenti con la somministrazione di psicofarmaci, 24,76%, arrivando al 35,18% per coloro che sono stati seguiti anche in psicoterapia. Questo dato diventa particolarmente interessante considerando che una parte rilevante nell’incremento di questa percentuale può essere spiegata con la corrispettiva diminuzione dei pazienti classificati come non rispondenti alle terapie che scende al 15,52% per coloro seguiti con un trattamento integrato rispetto al 28,16% del gruppo seguito solo psicofarmacologicamente.
Ci sembra dunque di poter affermare una superiorità dei trattamenti integrati nella cura dei disturbi depressivi ed ansiosi e la validità dell’ipotesi che considera tali interventi attivatori più efficaci di risposte ai trattamenti oltre che validi nell’aumentarne significativamente la qualità e di conseguenza la stabilità nel tempo.
I risultati disponibili nella letteratura sull’argomento sembrano essere oggi confermati da nuovi studi che impiegano strumenti complessi altamente affidabili, prima non disponibili, come le tecniche di neuroimaging che consentono di visualizzare l’attività cerebrale, le aree attivate e, dunque, i cambiamenti che intervengono in seguito ai diversi trattamenti impiegati.
Goldberg ed Apple (22) hanno studiato e confrontato, attraverso la PET, le modificazioni nell’attività cerebrali di soggetti con un disturbo depressivo maggiore trattati farmacologicamente con paroxetina o, in alternativa, con psicoterapia. Gli Autori hanno concluso che entrambi i trattamenti introducono dei cambiamenti nell’attività della regione limbica e della corteccia frontale. Ma l’aspetto più interessante di queste conclusioni é che gli interventi seguirebbero “canali” differenti: la psicoterapia agirebbe dall’alto verso il basso (top down) mentre la paroxetina dal basso verso l’altro (bottom-up), coinvolgendo aree cerebrali differenti. Questo rende evidente l’importanza di una terapia integrata che tenda a produrre una modulazione complessiva del sistema bio-psichico così da aumentare le possibilità di remissione della malattia e la stabilità nel tempo dei trattamenti.
Poiché, come affermato sopra, riteniamo importante essere in grado di dare ai pazienti risposte terapeutiche che rispettino la loro soggettività (tabella 9), il Centro per la Cura della Depressione e dell’Ansia, prevede la possibilità per lo psichiatra di avvalersi di differenti modalità psicoterapeutiche.
Il presupposto é di intervenire focalmente nel momento della crisi attraverso trattamenti brevi. La loro durata media é di 8 incontri con frequenza quindicinale; ciò significa seguire il paziente per circa quattro mesi avendo così a disposizione, per la coppia terapeutica, un tempo sufficiente ad affrontare e trattare i contenuti psichici relativi alla crisi.
In base alle indicazioni rilevate dallo psichiatra di riferimento e dalle caratteristiche del singolo paziente, gli interventi possono essere ad orientamento psicodinamico, o ad orientamento cognitivo-comportamentale.
L’indicazione per un trattamento psicodinamico viene solitamente fornita per i pazienti per i quali si ritiene indicata l’introduzione di uno spazio relazionale e di pensiero in grado di riavviare un processo psichico interno bloccato. Devono, dunque, essere presenti una buona capacità introspettiva e la disponibilità ad accostarsi ai propri contenuti psichici disturbanti, al fine di iniziare un percorso di elaborazione e trasformazione che, una volta attivato, consenta al paziente di rimobilitare le proprie risorse psicologiche, presenti precedentemente alla comparsa della crisi e della conseguente sintomatologia positiva e/o negativa.
Diversamente, l’indicazione per un trattamento cognitivo-comportamentale viene in genere preferita per i pazienti cui si ritenga maggiormente utile fornire strumenti evolutivi con un approccio di tipo direttivo, focalizzato alla risoluzione dei sintomi. I pazienti con queste caratteristiche, nel momento della crisi acuta, possono infatti sentire la necessità di disporre di indicazioni e modalità comportamentali, anche pragmatiche, al fine di fronteggiare il loro disagio. Questo tipo di intervento si rifà in misura minore alla significazione di contenuti mentali consci ed inconsci, mentre opera sui processi di pensiero disfunzionali e sul loro cambiamento attraverso modalità prevalentemente operative.
Questa possibilità di scelta fra diversi modelli psicoterapeutici si fonda sulla convinzione che sia una risorsa avere a disposizione più alternative, complementari tra loro e non in competizione, per non rinchiudersi in teorie precostituite, perciò para-scientifiche, che non sarebbero comunque in grado di rispondere al meglio alle diversità che incontriamo ogni giorno nella nostra pratica clinica.
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