Christian Lurati
La Ri-Vista { psi [ , AS12, Vol. I, Gennaio 2012.
Nel corso del processo psicoanalitico spesso compaiono, nel campo della relazione paziente-analista, eventi psichici amplificati rispetto a come si presentano solitamente al di fuori della stanza d’analisi.
Il fenomeno che mi interessa approfondire in questo lavoro é ciò che potremmo definire “concordanza psichica”. In alcuni specifici passaggi del trattamento analitico, con alcuni pazienti più frequentemente che con altri, é possibile riscontrare una particolare concordanza tra i contenuti che compaiono nella mente del paziente ed in quella dell’analista, senza che essi siano stati in precedenza esplicitamente nominati. Ciò potrebbe essere parzialmente spiegato dalla considerazione che nelle terapie in corso da tempo, la coppia analitica acquisisce un proprio linguaggio e propri specifici modelli rappresentativi operanti su livelli non verbali. Rimane comunque una sensazione di stupore nelle occasioni in cui si sperimenta questa sintonia così specifica e puntuale tra le menti impegnate nel lavoro analitico, a volte fin dalle prime sedute.
Già Freud (1915, 1921a, 1921b) ipotizzò che in determinate circostanze possa avvenire una comunicazione diretta, tra inconscio ed inconscio, in grado di scavalcare l’apparato della coscienza. In collaborazione con Ferenczi (Freud & Ferenczi, 1914-1918), egli si interessò all’indagine di fenomeni telepatici, sebbene sia stato molto cauto nel rendere esplicito questo suo interesse per il timore che un ambito d’indagine così al limite dell’esoterico potesse danneggiare l’immagine scientifica della psicoanalisi. Questo argomento, e quello più generale delle Percezioni Extra Sensoriali (E.S.P.), sono stati in seguito approfonditi in vari lavori psicoanalitici (Hitschmann, 1924 ; Servadio, 1935, 1955; Eisenbud, 1946; Ehrenwald, 1974; Sandler, 1976, 1987; Speziale-Bagliacca, 1977; Major & Miller, 1981; Fachinelli, 1983; Bolko & Merini, 1991; Simon, 1991) ed alcuni autori ne hanno dato una lettura alla luce del concetto di identificazione proiettiva descritto da Melanie Klein (1946).
Credo però che l’alone semantico legato al termine “telepatico” abbia accumulato nel corso del tempo significati che potrebbero condurci molto lontano dal campo di indagine nel quale sono interessato ad addentrarmi. Infatti, nel pensare ai fenomeni telepatici, l’idea pre-formata che può affacciarsi alla mente é di un processo in grado di trasmette un contenuto psichico da una mente di partenza ad una di arrivo mantenendo sostanzialmente invariate le caratteristiche rappresentazionali quali la forma o il contenuto. In questo lavoro intendo fare riferimento ad un fenomeno che possiede un maggior grado sia di complessità che di variabilità e che non riguarda l’eventuale possibilità di trasmettere coscientemente contenuti mentali, bensì relativo all’area delle comunicazioni inconsce e/o pre-consce che possono avvenire tra le menti. Per tale motivo, proverò a utilizzare come punto di partenza un concetto ibrido proveniente dalla meccanica quantistica e dalla psicoanalisi: l’entanglement psichico.
La fisica ci racconta di un fenomeno piuttosto interessante definito appunto entanglement (Aczel, 2004; Green, 2004). Sebbene appaia descrittivamente semplice, esso ha assunto una connotazione piuttosto bizzarra nel momento in cui i fisici hanno cercato di addentrarsi nella sua spiegazione teorica. L’entanglement venne individuato all’interno di un lungo percorso di diatribe iniziato a metà degli anni ’20 e proseguito a suon di sfide teoriche tra scienziati del calibro di Einstein e Bohr. Ed è un concetto che ritengo abbia interessanti punti di contatto con le teorizzazioni psicoanalitiche più avanzate.
In occasione dei Congressi di Solvay del 1927 e del 1930 i due scienziati si confrontarono pubblicamente sui loro divergenti punti di vista (Isaacson, 2008, Lindley, 2007). Bohr affermava che, secondo le leggi della meccanica quantistica, prima di misurare la proprietà di una particella, come ad esempio la sua posizione, sia possibile solamente ipotizzare il livello di probabilità che essa si trovi in una data posizione, in quanto la particella assumerà una posizione definita solo nel momento in cui viene effettuata la misurazione. L’atto della misurazione parteciperebbe dunque profondamente alla creazione della realtà, facendo “collassare” tutte le altre possibilità che la particella aveva di trovarsi in posizioni differenti (Green, 2004). Idea questa che sembra perlomeno affascinante pensando al fatto prescelto bioniano (Bion, 1962) della psicoanalisi: cosa avviene nel materiale clinico e nelle menti di analista e paziente nel momento in cui viene scelto uno specifico fatto psichico tra tutto il materiale presente nella seduta, decidendo di seguire il filo associativo ad esso connesso e abbandonando tutte le altre possibilità? Quali conseguenze ha questa operazione, inevitabile e necessaria, sulle possibili rappresentazioni che compariranno successivamente nel corso della seduta e del trattamento?
Ma torniamo per il momento alla fisica quantistica. Einstein, in contrasto con Bohr, riteneva che le particelle avessero proprietà definite già prima di essere misurate e cercò di dimostrarlo teoricamente con un apparente e momentaneo successo.
Per dirimere la controversia fu necessario l’intervento di Bell che a metà degli anni ’60 propose una strategia in grado di verificare sperimentalmente chi, tra Einstein e Bohr, avesse ragione. La soluzione che ideò si fondava sulla possibilità di misurare la direzione del movimento rotatorio lungo un determinato asse , orario o antiorario, che le particelle elementari possiedono e cioè il loro spin. Potremmo pensarlo come un aspetto dinamico della particella, come essa funziona in quel momento. I risultati ottenuti da Bell furono sorprendenti e, come spesso succede nel procedere della scienza, inattesi.
Innanzitutto risultò che la teoria proposta da Einstein non era corretta. Venne così confermata l’affermazione di Bohr secondo la quale le proprietà delle particelle acquisiscono valori definiti solo nel momento in cui vengono misurate. Ma, fatto per noi più rilevante, si scoprì che esistono coppie di particelle che condividono una particolare proprietà: sono entangled. Significa che, nell’istante in cui per una di esse vengono misurate delle proprietà, l’altra assume valori opposti per le medesime proprietà. In altri termini, sono dipendenti e correlate l’una con l’altra. Ma l’aspetto di maggior rilievo è che ciò avviene senza che esse abbiano necessità di “comunicare” tra loro. L’entaglement quantistico tra due particelle fa dunque sì che se misuriamo lo spin di una di esse lungo un determinato asse ciò “costringe” l’altra ad assumere istantaneamente uno spin di valore opposto sullo stesso asse (Green, 2004). E’ un fenomeno che riguarda le proprietà delle particelle elementari ed il loro modo di stare in relazione con altre.
A questo punto possiamo rientrare nel campo più propriamente psicoanalitico, per utilizzare quanto detto finora per pensare al fenomeno della concordanza psichica. Non é certo mia intenzione tentare di spiegare il funzionamento mentale applicando i modelli della meccanica quantistica. La psicoanalisi si nutre però di metafore che ci aiutano a rappresentarci efficacemente le dinamiche psichiche. L’entanglement può forse venirci in aiuto nel pensare al fenomeno della concordanza psichica da cui siamo partiti.
Fin dagli esordi della psicoanalisi la descrizione freudiana del transfert e controtransfert già conteneva, perlomeno in nuce, una rappresentazione relazionale del processo psicoanalitico e delle dinamiche concatenate tra le menti di paziente e terapeuta (Breuer & Freud, 1892-1895; Freud, 1911-1912, 1915-1917). Nel corso del tempo, proprio la componente relazionale ha ricevuto una sempre maggiore attenzione ampliando le iniziali concezioni prevalentemente intrapsichiche e individuali. Uno dei contributi fondamentali lo troviamo nella teoria bioniana con l’ampliamento del concetto di identificazione proiettiva kleiniano da fenomeno intrapsichico a fenomeno relazionale e comunicativo e con l’introduzione del concetto di rêverie del terapeuta (1962), in seguito ulteriormente sviluppato da Ogden (1997,1997b, 2009) e Grotstein (2010). Ci si é così spostati sul versante del terapeuta e del suo controtransfert non come elemento di disturbo bensì come un’importante via che egli ha a disposizione per costruire nella propria mente una rappresentazione dei contenuti non rappresentabili per il paziente.
Una delle caratteristiche della rêverie è che il suo “contenuto manifesto” è intessuto con pensieri, immagini e sensazioni provenienti da vissuti ed esperienze del mondo del terapeuta. Questo fa sì che in determinati periodi possa affacciarsi alla mente dell’analista una rêverie simile nel lavoro con pazienti diversi. Questo non significa però che l’utilizzo di questo materiale appiattisca il senso del paziente nello schema del terapeuta: infatti, per ogni paziente gli elementi importanti per il lavoro analitico saranno diversi e combinati in modo unico.
Il terapeuta utilizza la propria rêverie come propria lingua interna per pensare i pensieri del paziente in via di pensabilità. La comparsa della rêverie può segnalare che le menti del paziente e del terapeuta, o parte di esse, si muovono co-orientate in quanto entangled. In questo ambito, il corrispettivo dell’assunzione di valori opposti per le medesime caratteristiche nelle particelle entangled, non deve essere intesa letteralmente come la comparsa di rappresentazioni contrarie nelle menti di analista e paziente quanto piuttosto di rappresentazioni complementari. Riprendendo una metafora freudiana (1095), possiamo pensare allo sviluppo delle immagini fotografiche attraverso la pellicola per mezzo del negativo. Ciò che sta impresso sul negativo non é il contrario di quello che possiamo osservare alla fine del procedimento bensì una sua rappresentazione complementare. Ed entrambe sono componenti indispensabili dell’immagine finale. Allo stesso modo possiamo intendere gli elementi che compaiono nella mente di paziente e analista nei momenti di entanglement . Ed è proprio tale complementarietà che può portare alla comparsa di immagini tridimensionali: la creazione di una terza dimensione, nuova e complessa rispetto ai singoli elementi bidimensionali portati dai singoli membri della coppia, riguarda proprio quanto prodotto dall’integrazione dei pensieri progressivamente disponibili ad analista e paziente o, usando le parole di Ogden (2009), dal terzo analitico.
Quando ciò viene individuato e seguito consente a paziente e terapeuta di comunicare contenuti mentali della coppia analitica altrimenti non comunicabili. È come se nel paziente fosse disponibile un contenuto che cerca di essere pensato senza che egli disponga di un linguaggio adeguato a farlo, mentre il terapeuta dispone di una lingua adatta, la propria rêverie, senza però già conoscere il contenuto del pensiero che sta per formarsi. È un lavoro che non può che passare attraverso l’allusione o, più precisamente, attraverso quella particolare forma di comunicazione che è l’inter-lingua. Di questa definizione sono debitore ad una paziente, traduttrice ed insegnante di lingue, la quale mi spiegò che, durante l’apprendimento di una lingua, si passa da una fase, definita appunto inter-lingua, che si caratterizza per successive e continue approssimazioni verso quella che sarà poi la vera e propria forma strutturata condivisibile con le altre persone.
Il passaggio più complesso nell’utilizzo da parte del terapeuta di questo elemento relazionale consiste nella difficoltà di dare una seconda lettura dei contenuti della propria rêverie. Significa rileggerli come elementi ibridi che possano acquisire un senso per il paziente ed un nuovo senso per il terapeuta, conservando però per quest’ultimo gli elementi soggettivi portanti che hanno generato proprio quella rêverie, in quel modo, in quel dato momento con quel particolare paziente. Sono elementi quasi-alfa che devono essere ri-alfabetizzati con la storia del paziente. Quando il paziente non è in grado di narrare i propri pensieri lo fa la coppia terapeutica usando appunto la propria inter-lingua.
Ma tutto questo può avvenire in quanto è attivo un entaglement psichico della coppia in seduta, che orienta in una direzione comune l’emergere della rappresentazione cercata.
Una delle possibili difficoltà di compiere questa operazione sta nel fatto che la rêverie ha già, per il terapeuta, un proprio significato legato alla propria esperienza soggettiva; è un pezzo della propria storia. Darle un secondo sguardo (Baranger & baranger, 1990) potrebbe attivare fantasie di perdita di una parte di sé. Ma questo riguarda da vicino il modo di lavorare analiticamente che si fonda proprio sulla possibilità e la disponibilità a prestare la propria mente per pensare, in modo creativo e relazionale, i pensieri dell’altro che altrimenti non potrebbero essere pensati.
Un secondo ostacolo che può comparire per il terapeuta nell’utilizzo delle proprie rêverie è la disponibilità a fidarsi di esse, lasciando che l’iniziale incertezza sul loro significato si saturi progressivamente con gli elementi provenienti dal paziente. Se, come detto sopra, il contenuto manifesto della rêverie appartiene al terapeuta, il contenuto latente appartiene in gran parte al paziente.
Il fenomeno della concordanza psichica è dunque più dinamico di un semplice passaggio unidirezionale di una rappresentazione mentale da un soggetto ad un altro. Si tratta piuttosto di un entanglement nelle dinamiche psichiche e di una continua oscillazione elaborativa dei contenuti tra le menti della coppia per successive allusioni ed approssimazioni. Sebbene per ognuno dei membri della coppia questi contenuti psichici, alla conclusione del processo, manterranno delle parti di significato “private”, essi disporranno di un nuovo significato nato dalla costruzione comune. È ciò che in biologia possiamo rappresentarci con la fecondazione, dove ogni individuo porta una parte della propria storia, attraverso il DNA, in una combinazione contemporaneamente di entrambi ed allo stesso tempo originale e autonoma.
Queste considerazioni potrebbero spiegare in parte il motivo per cui nelle esperienze definite telepatiche solo una parte del contenuto trasmesso, il nucleo, è simile nelle due menti, mentre altre parti sembrano non corrispondere in modo puntuale o addirittura mostrano differenze sostanziali. Dunque, proprio ciò che potrebbe essere considerato un difetto nella comunicazione in quanto le due rappresentazioni non coincidono perfettamente, diventa un elemento clinico importante: è proprio nello scarto, nell’imperfezione, che si apre uno spazio per poter raccontare gli elementi mancanti. Ed è proprio in questo spazio che si incontra la caratteristica centrale della conversazione analitica che più che essere interessata a quello che il paziente dice è interessata a ciò che non riesce a dire.
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