Christian Lurati
Bergasse 19, Cultura e cura psicoanalitica, Ananke, Torino, n.3, gennaio 2009, pp. 28-33.
La psicoanalisi é una teoria del funzionamento psichico. Ancora oggi, dopo oltre un secolo dalla sua nascita, la possiamo considerare una delle rappresentazioni più efficaci di cui disponiamo per addentrarci nel campo della mente umana. E’ una descrizione dinamica dell’impasto delle relazioni variabili esistenti tra quanto ci é consentito di osservare più o meno direttamente, il conscio, e ciò che o non é osservabile in assoluto o, nel migliore dei casi, lo diviene solo attraverso vie indirette, l’inconscio.
La teoria psicoanalitica nella sua declinazione clinica può essere pensata come un lavoro sottile e paziente di ri-costruzione e co-costruzione di legami associativi, di accesso alla pensabilità di ricordi, emozioni, sensazioni, sogni e fantasie che costituiscono l’individuo. Dunque, di cura e di ritrovamento di senso o di riprogettazione dell’esistenza (Riva, 2008). Per la coppia terapeutica questo implica la necessità di confrontarsi con gli aspetti ontogenetici del paziente: partiamo da questo termine, preso a prestito dalla biologia, per indicare il complicato processo storico che ha inizio con la vita del paziente e passa, nel corso del tempo, attraverso continue trasformazioni psichiche assumendo via via configurazioni sempre diverse che qui definiremo, nel loro insieme, livello onto-psichico.
Esiste anche un secondo livello, che si intreccia con il primo, che ci interessa osservare poiché riteniamo che trascurarlo significhi perdere un elemento clinico molto utile alla comprensione dei nostri pazienti: quello filo-psichico. Esso rappresenta gli elementi che precedono, ed in qualche modo oltrepassano, l’individuo e che appartengono alle rappresentazioni consce, ma soprattutto inconsce e fantasmatiche, di frammenti di storia delle generazioni che lo hanno preceduto. Come la doppia elica che costituisce il DNA possiamo immaginarci le componenti filo-psichiche e onto-psichiche alla stregua di filamenti intrecciati che danno vita alla materia del tessuto psichico individuale.
Possiamo collocare in quest’ottica la questione posta da Kaës e Faimberg (1995) a metà degli anni novanta sulle modalità di trasmissione della vita psichica tra le generazioni e sulla possibilità o meno per gli individui di dimenticare. Atto, questo, che è la condizione indispensabile per l’esistenza di una memoria viva e creativa. Spesso infatti, nel trans-generazionale si assiste alla “trasmissione del negativo”, cioé di formazioni mortifere come oggetti perduti per i quali non é stato elaborato il lutto, sensi di colpa o sentimenti di vergogna piuttosto che traumi non trasformati. Tutti materiali psichici, insomma, che non hanno potuto essere adeguatamente contenuti, trattenuti e ricordati ma che vengono “semplicemente” passati all’altro. Essi non hanno la trama dei veri ricordi; sono più simili a tracce nell’inconscio che, se rimangono senza memoria, possono generare pensieri bianchi (Kaës, 1995) che indicano la presenza psicotica dell’incapacità di pensare. Questa incapacità genera, a sua volta, una forma di vuoto psichico agendo in modo simile al processo di attacco al pensiero definito –K da Bion(1962). In questa condizione non si ha semplicemente a che fare con un’assenza di conoscenza, bensì con un processo attivo attraverso il quale viene tolto significato e che ha come obiettivo quello di dis-conoscere.
Paradossalmente queste formazioni appartengono alla dimensione dell’indimenticabile in quanto non trasformabili. Da questo punto di vista, il trans-generazionale rappresenta il processo inconscio attraverso il quale un individuo entra in contatto con una precedente esperienza non vissuta ed estranea alla coscienza; una sorta di eredità inconsapevole di eventi traumatici rifiutati o negati da coloro che li hanno vissuti, che si sedimentano progressivamente nella psiche dei discendenti. Abrahm e Torok (1972) hanno descritto questi luoghi della mente come delle cripte che accolgono al loro interno fantasmi, oggetti grezzi, enigmatici, bizzarri, impensabili ed indicibili. Da un vertice bioniano potremmo figurarci queste cripte come depositi di elementi beta o scarti di funzioni alfa abortite sul nascere. Bion (1962) diede il nome di funzione alfa a quella parte della nostra mente a cui spetta il compito di svolgere operazioni trasformative che permettono di elaborare ed organizzare tutte le nostre esperienze sensoriali ed emotive grezze, gli elementi beta appunto, generando elementi alfa che sono gli elementi base per la costruzione del pensiero. Alla funzione alfa spetta anche il compito di costituire e mantenere una barriera limitante tra conscio e inconscio.
In questo lavoro il nostro interesse é rivolto alle ricadute che il trans-generazionale ha per alcuni dei pazienti con i quali ci troviamo a lavorare e, di conseguenza, sul processo psicoterapeutico. Partiamo dunque dalla considerazione che nella stanza d’analisi ci capita di incontrare e, soprattutto, di sperimentare quel particolare e potente fenomeno che Melanie Klein (1946) per prima denominò identificazione proiettiva. Essa é un processo intrapsichico che si fonda sulla fantasia inconscia di colui che proietta di liberarsi di una parte di sé indesiderata o danneggiata, collocandola in un’altra persona così da poterla controllare dall’esterno più efficacemente. Uno degli esiti di questa operazione é che la parte proiettata viene vissuta come parzialmente perduta in quanto appartenente a colui nel quale é stata proiettata. Ma la straordinaria caratteristica dell’identificazione proiettiva é la sua capacità di agire nel campo interpersonale. Infatti, chi accoglie la proiezione può sperimentare la sensazione di sentire, pensare o agire conformemente ai sentimenti espulsi ed alle rappresentazioni di sé e degli oggetti contenuti nella fantasia proiettiva (Ogden, 1991), percependo contemporaneamente un senso di ineluttabilità e di estraneità.
Sebbene quanto appena descritto ci rimandi già ad un sufficiente grado di complessità, dobbiamo ampliare ancora un po’ il nostro angolo di osservazione tenendo presente che l’identificazione proiettiva può assumere, di volta in volta, la funzione di difesa, di comunicazione, di relazione oggettuale o di via verso l’evoluzione psicologica. Se pensiamo alla mente del neonato, al suo nascente apparato per pensare non ancora sufficientemente sviluppato ed elastico, diventa comprensibile che in alcuni momenti il carico di percezioni, sensazioni e/o frustrazioni possa superare la soglia massima della sua capacità di contenimento e di elaborazione. Egli tenderà allora a liberarsi di questi contenuti intollerabili in eccesso evacuandoli attraverso l’identificazione proiettiva nel genitore. Se la mente di quest’ultimo é disponibile ad attivare un processo di rêverie e di integrazione del contenuto degli elementi che costituiscono la fantasia proiettata, inizierà un processo di trasformazione e tessitura che renderà disponibile un materiale psichico semi-lavorato che al termine del processo non avrà più l’intesità disturbante ed inaccettabile dell’originale. A questo punto il prodotto della funzione alfa del ricevente può essere di nuovo reinteriorizzata da colui che ha proiettato. Tutto ciò crea un’espansione del pensiero, poiché il bambino si confronta con la possibilità di tenere dentro di sé in forma rielaborata ciò che prima non era possibile tollerare. Ma succede di più: se queste interazioni sufficientemente buone (Winnicott, 1979) si ripetono nel tempo, il bambino acquisisce progressivamente egli stesso un modello ed un dispositivo di trasformazione sempre più articolato. Nasce così l’apparato per pensare i pensieri come inteso e descritto da Bion (1962).
Esiste però anche la negativa del processo descritto: ciò che crea il pensiero può anche portare a generare quelle che abbiamo definito cripte psichiche. In questo caso assistiamo ad un’evoluzione e ad una strutturazione dell’identificazione proiettiva in forma di anti-pensiero, che riteniamo sia di particolare rilevanza nel fallimento del trans-generazionale e nelle situazioni in cui esso si manifesta con una deriva psicopatologica.
Uno degli elementi frequentemente presenti in queste situazioni é il segreto. Esso viene generalmente inteso come ciò che, conosciuto da un soggetto, viene precluso alla conoscenza altrui. In psicoanalisi, però, il segreto rappresenta una forma più complessa di non conoscenza in quanto può riguardare anche il soggetto stesso o più soggetti che ne sono depositari. Infatti, sappiamo bene come la mente, attraverso le difese, sia in grado di nascondere od alterare contenuti spiacevoli ed inelaborabili al fine di preservare il proprio equilibrio. Ci avviciniamo così al legame esistente tra segreto in senso psicoanalitico e trauma come evento che provoca dei “distaccamenti” inaccessibili di zone psichiche. Un’altra caratteristica del segreto, per come lo intendiamo in questo contesto, é che esso si costituisce all’interno di una o più relazioni e dunque riguarda un processo che oltrepassa l’intra-psichico; si definisce piuttosto nell’inter-psichico come appartenente ad una storia che non può essere raccontata esplicitamente.
Se nei soggetti coinvolti sono inoltre contemporaneamente presenti una carenza nell’apparato che consente la rêverie oltre ad uno sbilanciamento dell’identificazione proiettiva nella direzione che va dal cargiver al bambino, allora con un’elevata probabilità si presenteranno dei fallimenti nella strutturazione filo-psichica di alcuni contenuti mentali.
Un genitore di questo tipo, depositario di un segreto inaccessibile e/o incomunicabile e soprattutto non trasformabile, tenderà a utilizzare l’identificazione proiettiva sia come canale di evacuazione di eventi storico/famigliari, che come unica via di comunicazione criptata di parti del Sé famigliare che necessita di essere trasmessa anche se in forma di buco narrativo. Infatti, tra le generazioni é presente la necessità di comunicare ciò che non può essere dimenticato, anche se non si dispone di una “lingua” sufficientemente evoluta per farlo.
Possiamo ipotizzare che questo tipo di interazioni abbiano all’origine la fantasia inconscia che quello che ha portato ad un fallimento elaborativo per determinate generazioni possa essere trasformato da coloro che proseguono la catena evolutiva. Si assisterebbe a qualcosa di simile a quanto Ferenczi (1919) descrisse, nell’intra-psichico, a proposito della coazione a riattualizzare gli eventi traumatici fintantoché essi non abbiano accesso a possibili elaborazioni.
La componente patologica riguarda il fatto che l’identificazione proiettiva non si inserisce in un rimando di successive trasformazioni tra proiettante e ricevente in cui progressivamente si strutturano delle parti del Sé e delle rappresentazioni delle relazioni via via più evolute. Al contrario, essendo le rappresentazioni e gli affetti ad esse collegate scisse nel proiettante e non ri-accoglibili, permarranno scisse anche nel ricevente. Non diventeranno dunque parti integrate nel Sé di quest’ultimo bensì saranno presenti come zolle scisse nel suo Sé. Nel fallimento trans-generazionale non avvengono dunque proiezioni e re-introiezioni trasformative bensì delle duplicazioni nell’altro di nuclei di aggregati-beta lungo la linea filo-psichica. Si ottengono così dei contenuti pre-narrativi di traumi precedenti altrui che vengono “inclusi” nei discendenti (Bosani, 2008).
La caratteristica di questi contenuti non narrati é di essere simili a delle mine antiuomo (Resega, 2008) collocate nel tessuto psichico dell’individuo e, se non azionate, possono rimanere dormienti anche per molto tempo. In determinate condizioni, però, si possono riattivare violentemente producendo delle vere e proprie deflagrazioni nei vissuti personali e nelle relazioni, portando a reiterare comportamenti e vissuti sentiti come estranei, in quanto scissi, ma al contempo non abbandonabili da colui che li replica.
Questo é probabilmente ciò che a volte avviene nel processo analitico in passaggi particolarmente delicati o nel lavoro con pazienti che sono stati oggetto di comunicazioni trans-generazionali del tipo sopra descritto. Queste mine nelle quali ci capita di incappare nel corso delle terapie coincidono spesso con i passaggi più complessi e pericolosi per l’andamento del trattamento. Frequentemente si rivelano però anche dei varchi decisivi per portare la coppia analitica verso un’elaborazione creativa di parti ereditate altamente patologiche e problematiche presenti nei nostri pazienti. È nel groviglio delle identificazioni e controidentificazioni proiettive e nel loro progressivo scioglimento che si gioca gran parte del lavoro psicoterapeutico (Ogden,1991, Baranger & Baranger, 1990). Poiché ciò che comprendiamo dell’identificazione proiettiva acquisisce senso soprattutto se ha un’utilità nel lavoro clinico, proveremo a spingerci oltre con alcune ipotesi circa il suo operare.
Uno dei punti che hanno attirato la nostra attenzione é la variabilità dell’impatto relazionale dell’identificazione proiettiva. Variabilità che dal vertice di osservazione terapeutico chiama in causa gli assetti delle singole coppie paziente-terapeuta. Se pensiamo ad un paziente che attiva nel campo analitico un’identificazione proiettiva verso il terapeuta, possiamo immaginare che le reazioni di quest’ultimo non siano predeterminate, bensì possano variare per intensità dei movimenti intra-psichici e per qualità delle risposte elaborative. In poche parole il terapeuta potrebbe rispondere con controidentificazioni proiettive incrociate, rimanendo impigliato nella coazione trans-generazionale proposta dal paziente. Diversamente potrebbe accogliere la proiezione per trasformarla in senso evolutivo. Infine, potrebbe non considerarla, consciamente o inconsciamente. Ognuna di queste eventualità chiama necessariamente in causa anche la soggettività del terapeuta.
L’ipotesi che qui proponiamo rispetto all’identificazione proiettiva trans-generazionale, che non vuole essere esaustivamente esplicativa del processo, evidenzia la plasticità delle sue manifestazioni e dei suoi destini partendo dal presupposto che, quando essa si attiva, la coppia paziente/terapeuta possa collocarsi in diverse posizioni lungo un continuum immaginario.
Consideriamo che nel proiettante, in un determinato momento, sia attiva una matrice di pensiero caratterizzata da una specifica configurazione di elementi psichici. Trattando qui di identificazioni proiettive questi elementi mentali saranno più vicini ad elementi beta piuttosto che ad elementi alfa. Una possibilità é che questa matrice di pensiero, dopo essere stata “depositata” nel ricevente si sovrapponga ad una matrice congruente appartenente a quest’ultimo in quanto riattiva spazi psichici che egli ha già perlomeno incontrato oppure già elaborato nella corso della propria evoluzione psichica. Siamo in presenza, sebbene in forme qualitativamente differenti, di un’esperienza comune tra paziente e terapeuta. Il terapeuta/ricevente allora potrà, con relativa semplicità, ricollegare gli elementi grezzi contenuti nella proiezione con elementi propri più evoluti in quanto già passati attraverso la funzione trasformativa alfa. Questo significa che egli, riconoscendo qualcosa di simile alla configurazione relazionale attiva, sperimenterà una reazione affine ad un movimento contro-transferale che potrà essere trattato dalla coppia terapeutica per poi successivamente essere reintroiettata dal paziente. Possiamo collocare questa prima situazione ad un estremo del continuum proiettivo.
L’estremo opposto del continuum corrisponde all’eventualità che la matrice proiettiva del paziente non attivi nessuna matrice corrispondente nel terapeuta. L’incontro, se così lo possiamo chiamare, si basa su una non esperienza. Ciò avviene quando un’identificazione proiettiva scivola via dal terapeuta. Non viene nemmeno rifiutata, bensì cade senza lasciare traccia. Pensiamo che quando ciò avviene, con molta probabilità nel corso successivo della terapia il contenuto della fantasia proiettata dal paziente verrà riproposto. Se il terapeuta continuasse a non accoglierla, a lungo andare il processo tenderà o ad interrompersi o ad arrivare a conclusione lasciando che aree importanti e significativamente patologiche del paziente rimangano inelaborate. Rientrano forse in questi casi alcuni dei pazienti che richiedono analisi successive con terapeuti differenti senza che nel frattempo siano intervenuti avvenimenti che giustifichino tale richiesta.
Una terza situazione, che possiamo collocare nel mezzo del nostro continuum, si verifica quando la matrice di pensiero che viene proiettata incrocia nel terapeuta una matrice simile, costituita però a sua volta prevalentemente da elementi grezzi. Significa che la proiezione incontra una macchia cieca del terapeuta o, per dirla con le parole dei Baranger (1990), un bastione. In questo caso si ha un’esperienza parallela che porta il terapeuta a sperimentare una vera e propria identificazione proiettiva per come noi la conosciamo. Qui il processo terapeutico diventa più complicato: sta alla capacità dell’analista di riconoscere quanto sta accadendo e di confrontarsi con parti del proprio ignoto-conosciuto, con i propri pensieri non pensati, accettando di sperimentare e contenere i vissuti e le interferenze disturbanti che si attivano nel campo per potere poi procedere al loro faticoso processo di trasformazione in elementi sognabili (Ogden, 2008), nominabili e sensati per la coppia analitica. Solamente successivamente a questo passaggio il paziente può riappropriarsi della parte proiettata e modificare la catena patologica di trasmissione trans-generazionale di quel contenuto psichico.
Quanto descritto può aiutarci a comprendere come l’identificazione proiettiva trans-generazionale possa variare nel processo terapeutico non solo in funzione dell’abilità del terapeuta nel maneggiarla ma proprio in funzione dell’assetto di quella particolare coppia terapeutica. Questo perché il campo analitico, quando correttamente funzionante, dovrebbe essere in grado di riconoscere e proseguire nel lavoro lasciato incompiuto dalle identificazioni proiettive trans-generazionali patologiche. Ciò deve passare attraverso lente trasformazioni dei nuclei non-narrativi, introducendo progressive rielaborazioni che conducano all’interruzione della coazione a trasmettere cripte mentali nella catena filo-psichica.
Bibliografia
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Ferenczi S. (1919). Psicoanalisi delle nevrosi di guerra. In: Opere, 3, Milano: Cortina, 1992.
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Ogden T.H. (2008). L’arte della psicoanalisi. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Resega R. (2008). Comunicazione personale.
Riva M., (2008). Comunicazione personale.
Winnicott D.W. (1979). Gioco e realtà. Milano: Armando Editore, 1994.