Marco Riva
Quaderni Italiani di psichiatria vol. XXIII-4. Dic. Masson ed. 2004.
Premessa
Questo articolo si pone innanzitutto come una (ennesima) riflessione sulla televisione e sui new-media. Ogni ipotesi di studio sulla televisione deve essere premessa da una considerazione solo apparentemente ovvia: la televisione esiste. Evitando qui una serie di valutazioni storiche e sociologiche sull’”oggetto-mezzo”, mi sembra opportuno premettere una constatazione mai abbastanza dichiarata: la televisione è costitutiva della nostra realtà.
Il bambino costruisce la propria visione del mondo in relazione all’ambiente che esiste attorno a lui; la mediazione verso questo ambiente una volta era operata dagli adulti che gli rappresentavano e gli descrivevano il mondo esterno. Oggi, in larga misura, e fin dalla primissime fasi dello sviluppo del bambino, questa mediazione è attuata dalla televisione: dalle sue forme luminose e dai suoni prima, dai cartoni animati, dalla pubblicità e dai telefilm poi. Il televisore è un elemento personalizzato dell’ambiente, una “tata” elettronica capace di affascinare con le proprie forme seducenti raccontando storie popolate da personaggi che “entrano” a pieno titolo nelle famiglie. Quel mondo, mostrato dalla tv, non è riconosciuto come una finzione.
Quel mondo “è” il nostro mondo.
Il termine “Psicopatologia Mediale” definisce un’area di interesse della psicologia e della psichiatria. Quest’area è solo in parte caratterizzata da territori “diagnosticati” in senso sintomatico, sindromico e personologico (evidenze cliniche e sub-cliniche), ma è anche, soprattutto, definita dalla normalità intesa sia come regolarità statistica che come modello culturale. Una normalità di questo nostro tempo che è il tempo del moderno e post-moderno (e del futuro) caratterizzato dalla variazione e dalla circolazione sempre più rapida di norme che spostano i limiti dei divieti e delle necessità perciò dei desideri e delle paure. Un’area d’indagine relativa ai fenomeni patologici e non indotti dai mezzi di comunicazione di massa: psico(pato)genesi mediale. Premessa, per ora, essenziale è quella di un’ipotetica oggettività dell’osservatore sulle manifestazioni della patologia mentale e della normalità.
In questo (enorme) contesto l’a-teoretica evidenziabilità formale, che permette la riproducibilità scientifica, è uno strumento utilizzabile per quantificare sia variazioni fenomeniche di antiche e ben note “sindromi maggiori” come le patologie paranoiche sempre più spesso rappresentate “visivamente” dalla presenza delle moderne tecnologie della comunicazione, sia sindromi “emergenti” come l’internet, PC e TV addiction, ma diviene progressivamente inutilizzabile nel percorso verso la normalità comportamentale-sociale.
Un approccio meno riproducibile ma in grado di fornire coesioni concettuali (ipotesi teoriche-etiopatogenetiche) anche nei territori della normalità o dell’invisibilità formale del patologico, è quello sotteso al percorso teorico psicoanalitico che inizia con la “genetica” di Freud, prosegue con le ipotesi “posizionali” della Klein e “transizionali” di Winnicott per giungere alle “teoria della mente” di Bion (apparato per pensare) ed alle successive elaborazioni che puntualizzano l’importanza dell’apparato “vista-pensiero” (8). Una sintesi di questo percorso propone il consumo come oralità, il controllo tecnologico come analità, i “modelli vincenti” come maniacali difese dalle necessarie elaborazioni depressive, l’a-teoreticità come inabilità di accesso alla crisi-crescita insita nello scambio “transizionale” e infine la ridondanza di modelli pre-costituiti come definitoria di –K (l’opposto al pensiero di Bion) (4).
Data un’ottica comunque “osservativa”, sia quella ateoretica che quella concettuale, vengono qui proposte una serie di osservazioni (points of view) sul “media” televisione.
Il linguaggio pubblicitario televisivo, cioè tutto il linguaggio televisivo, è caratterizzato da successioni di immagini che si susseguono senza reali intenzioni argomentative ma finalizzate a fissarsi nella mente del pubblico cioè a corto-circuitare il pensiero critico ed ipotetico, “quanti informazionali” che mutano la percezione del reale e soprattutto lo predeterminano.
La televisione ed i new media in genere ci esonerano dall’esperienza diretta pre-giudicando i codici di giudizio: “qualsiasi informazione, qualsiasi notizia, qualsiasi pubblicità, indipendentemente dal suo valore veritativo, segnala il punto di vista da assumere per prendere in considerazione l’assente-ignoto” (11).
Le informazioni fornite dalla televisione diventano così criteri interpretativi della realtà cioè modelli induttori dei nostri giudizi.
Fenomeni di addictions di immagini televisive, per quanto soft cioè meno clinicamente evidenziabili di altri abusi, caratterizzano fasce sempre più ampie di popolazione teledipendente e sempre più bisognosa di alti dosaggi di immagini “forti” o di dosi continue di “flusso” televisivo. Questo flusso continuo de-localizza il soggetto dal privato ma anche dal pubblico (deprivatizza e depubblicizza) ponendolo in un “ovunque” i messaggi lo portino. Si realizza una duplice esistenza spaziale o “schizotopia” (2) strettamente connessa ad una fissurazione dell’essere-nel-mondo: noi non siamo-nel-mondo ma siamo consumatori del mondo…anzi dei fantasmi mediatici del mondo”. Cadono le distinzioni tra pubblico e privato e dunque tra esteriorità ed interiorità. La singolarità dell’individuo (apparenze fenomeniche) è sostituta dalla fenomenicità delle merci comunque pubblicitarie con conseguente metamorfosi dell’individuo riconoscibile solo come merce es-posta: l’identità residua nella sua es-posizione.
Il tempo lineare (storico) tende ad essere sostituito dal “tempo reale” (tempo ottimizzato): il tempo dell’attesa, il tempo del pensare e dell’essere pensati sparisce. Questo “tempo reale” (peraltro totalmente irreale) delle comunicazioni immediate è opposto al tempo del desiderio e delle idee e svuota di significato i contenuti dei discorsi: l’immediatezza cancella il senso, la velocità azzera il vedere.
Tutto ciò appartiene ai fenomeni, alle produzioni (deliranti?), della normalità e delle “identità eccessive” solo capaci di accedere ai concetti ma inadatte all’intuizione.
Come già ipotizzato (15) la psico(pato)geneticità della televisione risulta “funzionalmente” simile alle modalità relazionali esplicitate dagli individui strutturati, in senso winnicottiano, come “falso sé”. Le caratteristiche principali di questa struttura sono la sua “trasversalità” sia rispetto alla malattia mentale sia alla normalità sociale e la sua elevata “contagiosità”. La trasversalità è caratteristica comune ad altre meta-teorie o “visioni dell’uomo” prodotte dalla psicoanalisi come la metapsicologia di Freud, le “posizioni” della Klein ed i modelli della mente di Bion.
La psicopatogenicità di questa struttura personologica risiede nelle sue potenzialità ingannatorie-mimetiche così come la realizzazione di queste potenzialità è la vera funzione della struttura falso sé: la concretizzazione del progetto ingannatorio è il prodotto della struttura che ne determina l’esistenza stessa. Le possibilità mimetiche-ingannatorie del falso sé sono direttamente proporzionali al livello intellettivo del soggetto, cioè alle sue capacità “gestionali” di quantità di dati necessari alla costruzione-manipolazione ambientale.
La possibilità di pensare, cioè la possibilità di dare un senso alle emozioni come l’amore e l’odio e di tollerare una conoscenza in divenire, cioè insatura (in “tensione” verso la verità) e quindi disponibile all’intuizione, è impedita o ridotta e sostituita da “qualcosa di segno opposto” (4) alla formazione dei legami simbolici. Questo opposto al pensiero (-K), che può essere rappresentato dall’adeguamento al feticcio, al rituale sociale ed ai modelli, caratterizza allora il funzionamento di una mente bisognosa di certezze assolute, di riferimenti concreti, immobili e definitivi. E’ questa un’attività apparentemente somigliante al “pensare”: i modelli possono essere acquisiti ma non elaborati, sono “modi di fare” costanti e ripetitivi ma soprattutto sostituibili da altri modelli.
Attraverso l’accondiscendenza ai modelli disponibili (feticci, modi di fare, mode…) possono essere accumulate un insieme di relazioni non “immaginate” ma già date ed al posto della creazione e dell’elaborazione vi sarà la ripetizione di schemi e l’automatismo tipico della macchina: l’esperienza emotiva non è disponibile per l’evoluzione di una nuova idea, nei fatti viene soffuso un significato rigido e congelato che spesso richiede una distorsione dei fatti perchè essi vi si adattino.
L’impedimento all’attività simbolica (o di pensiero) implicito nel “sistema mimetico”, comporterà un sovraccarico di eccitamenti istintuali, i quali, in assenza di una mente elaborativa, potranno esclusivamente essere “espulsi” dalla mente nel soma o in azioni ripetitive e cariche di simbologie “finite”, oppure nel consumo obbligatoriamente ripetitivo di “realizzazioni”.
Compiacenza, imitazione, produzione e consumo di modelli “dati” di ruoli stereotipati di relazioni sociali standardizzate, vite che appaiono normali. La finzione, spesso inconscia, permea queste esistenze nelle quali l’esperienza diviene sempre più dipendente da costruzioni artificiali: un prodotto di relazioni in cui la velocità permette il riempimento di ogni spazio vuoto e dove l’eccitamento deve essere costantemente mantenuto: si realizza l’invasione della sospensione del giudizio (il pensare) da parte delle certezze precostituite e moltiplicabili, ovvero la quantità al posto della qualità.
Alcuni autori, forse primi tra tutti Baudrillard (3) e Virilio (15) parlano di “colonizzazione” del reale da parte del virtuale. La scomparsa dell’originale e la non pertinenza con la realtà caratterizzano questa colonizzazione. Secondo questi autori il reale non esiste più, esiste l’iper-reale più vero del reale e prodotto dai media: una notizia è vera solo se è comunicata dai media, ovvero la realtà è costruita da notizie non necessariamente vere ma veritiere, “fattoidi” (7) più credibili dei fatti e soprattutto più “consumabili”. La televisione produce realtà eccessive “più vere del reale” e satura gli spazi, riempie gli interstizi ignoti: qualsiasi informazione, qualsiasi risposta. Consumo, sino alla consunzione, delle notizie (vere e/o veritiere) e degli oggetti che perdono il valore delle proprie singolarità nelle reti televisive e nei megastores. Il senso delle notizie e degli oggetti (informazioni-oggetto) è la loro vendibilità. Il problema sotteso a questi fenomeni ” normali ” è soprattutto strettamente connesso con la perdita-riduzione della capacità di simbolizzare e/o di accedere all’immaginazione-metaforizzazione.
Sono allora evidenziabili tre livelli di patogenicità televisiva:
1) il livello dell’eccitamento e della velocità: l’aumento esponenziale del consumo di immagini de-contestualizzate (zapping televisivo) determina un’astinenza che si riverbera in un’insaziabilità di oggetti e di persone tra loro intercambiabili ma sempre necessari pena l’astinenza (consumo obbligatorio, consumo come droga).
2) il livello dei modelli: l’acritica acquisizione per osmosi dei modelli comportamentali televisivi che sono superficiali ma convincenti, determina l’arresto (o impedimento) dei percorsi di crescita cioè di indagine e di adattamento alla realtà esterna (etica) e interna (emozionale).
3) il livello di valori e della qualità: la scomparsa di referenzialità con la verità che tipizza le comunicazioni di massa implica le crisi della capacità di differenziare la realtà dalla fantasia (schizofrenogenesi) con conseguente crisi della “capacità di pensare”.
Assumendo il concetto bioniano di “vertici” (nel senso di poli-visione) si può tollerare la scomparsa (o sospensione) del punto di vista sin qui descritto “sulla” televisione. La considerazione è la seguente: forse non è oggi sensato esprimere un’opinione oggettiva sui media a patto di non tener conto della assenza di delimitazione tra il mondo reale (quello direttamente esperibile con i propri sensi) ed il mondo virtuale (quello ri-prodotto digitalmente o meno). La similarità caratterizza questo punto del discorso che non si articola più quindi “sul” mondo virtuale ma si pone “nella” continuità (o assenza di fratture) tra mondo reale e mondo virtuale. La televisione modifica l’ambiente e l’ambiente modificato rimodifica la televisione. Si esplicita così una circolarità tra i due referenti dove il consumo sempre più rapido di “qualsiasi-cosa” caratterizza lo scambio.
Compare la necessità di trovare un punto di vista che non tenti di oggettivare il mondo virtuale e che tenga conto delle caratteristiche mobili e fluide di questo contesto: un’ermeneutica “non neutrale”. Varie discipline del sapere, dalla fisica, alla psicoanalisi, all’antropologia hanno già approfondito e sperimentato il percorso che conduce alla riconsiderazione del “soggettivo”. Il soggetto-osservatore, conscio che la sua presenza, in quanto tale, modifica i parametri dell’oggetto indagato, si de-localizza dal precedente essere a distanza dall’oggetto osservato e si situa “nella” complessità del problema in esame. Il punto di vista diviene “migrante” sempre in movimento e sempre in contatto con le similarità del contesto “inquieto”: una metaosservazione.
Più che ad ulteriori oggettivazioni della televisione è opportuno pensare innanzitutto all’atmosfera del mezzo, al rapporto che il mezzo determina con l’utente o, in termini più specifici, al “setting” che delimita-definisce il rapporto. E’ “in” questi setting che è necessario immaginare l’introduzione di variabili che possano permettere alternative (non certo sostituzioni) ai descritti rapporti caratterizzati dal funzionalismo del digitale.
La televisione “si” mostra proponendosi non come un mezzo di comunicazione, non come un messaggio (13), ma come messaggero cioè un soggetto che si esplicita mostrando immagini di sé, forme-già-viste, forme “primarie” che esplicitano la soggettivazione di ciò che oggetto non è mai stato.
E’ a questa “materia (liquida) virtuale” o “pelle” visibile del digitale, con la fisicità dell’immagine elettronica, con le sue forme primarie e con le sue luci, che è necessario prestare attenzione, ai “segnali propri” prima, ed ai “segnali aggiunti” (12) poi, emessi dal monitor. Tutto ciò è presenza dell”altro”. Essendo il digitale-televisivo costituente del mondo è allora anche costitutivo del soggetto, cioè costitutivo della (nostra) personalità. Il digitale così inteso si pone come una percezione originaria della realtà capace di esprimere una inerenza dell’io al mondo e dell’io agli altri, addirittura di far “vedere” il rapporto tra soggetto e il mondo e tra soggetto e gli altri.
E’ allora necessario elaborare una fenomenologia (estetica) che “veda” il compimento della vocazione realistica dei costituenti le ri-produzioni digitali capaci di costituire frammenti di realtà “anteriori” al senso, ovvero tutta l’ambiguità ontologica di questa realtà. Noi non siamo “dipendenti” da queste luci e da questi rumori primari (se non nella comparsa di rari casi psichiatrici di vera dipendenza), noi siamo “fatti”, siamo stati fatti dagli anni ‘50 in poi, da questa materia costitutiva del nostro tempo e della nostra normalità. Solo dopo l’acquisizione di questo punto di vista fenomenologico-ermeneutico, caratterizzato dalla soggettivizzazione dell’oggetto “irreale”, sarà possibile un ri-orientamento antropologico prima e psicopatologico poi. “Modello” possibile di questa distanza relazionale può essere quello della comprensione del delirio quando questo sia inteso come “non solo fenomeno o struttura formale tipica di malattia psichica ma anche costruzione psichica ed esperienza significante del mondo” (16).
Lo psicopatologo deve guardare e ri-guardare il virtuale, “ri-farsi” di digitale, percepirne l’alterità (e l’identità), studiarla, interpretarla per “comprenderla”, per poter “vedere” le persone reali pena la cecità. Dunque il comprendere jaspersiano (verstehen) nel senso della visione intuitiva di qualche cosa “dal di dentro” per giungere alle “intenzioni” dei soggetti virtuali comunicanti non più (mai più) solo irreali. Il progetto-conoscenza della psicoanalisi passa dalla ri-percezione del passato (10), per alcuni è un passato (anche) in bianco e nero e con un solo canale, per altri è un passato a colori e con molti canali.
Bibliografia
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